Odessa vista dall'Italia
ucraina
Le lingue prima della guerra
La nostra famiglia ad Odessa ha sempre parlato russo e a Kiev si usavano indifferentemente il russo e l'ucraino. Sul tema un articolo di Internazionale da leggere.
A Odessa si parla (quasi) solo russo. La nostra famiglia in città ha sempre parlato russo. I figli italorussi, a scuola, non hanno mai avuto problemi. Mai alcuna discriminazione. Sono tante le città ucraine dove la situazione è analoga.
A Kiev, in un negozio o al caffè, ti parlavano indifferentemente in russo o in ucraino. Se sentivano che rispondevi in russo passavano subito a questa lingua.
A Leopoli quasi tutti parlano invece ucraino. Allora gli si diceva: so il russo, il tedesco e l'inglese. Come comunichiamo? Una volta mi hanno detto: in inglese. Altrimenti la lingua franca è sempre stata il russo, nel corso di tutta la settimana che ho trascorso lì. Hotel, birrerie, negozi.
Le panzane del Cremlino sono, appunto, panzane.
Leggete questo articolo!
Internazionale, 17.03.2022, Mihail Katsurin: “Mio padre crede al nemico”.
Un estratto:
“...Quando ha risposto al telefono, gli ho detto che io e mia moglie (viviamo a Kiev) stavamo bene ed eravamo alla ricerca di un posto sicuro: l’idea di rifugiarci in uno scantinato con un figlio di otto anni e temere che una bomba cadesse sull’asilo di nostra figlia non ci piaceva per niente. Mio padre, con la voce più tranquilla del mondo, mi ha risposto che era tutto falso, che nessuno ci stava bombardando, che i nazisti stavano tramando alle nostre spalle e che la Russia ci avrebbe salvato. Così, ha aggiunto, la popolazione russofona avrebbe finalmente vissuto in pace. Quando gli ho ricordato che sono cresciuto nella città russofona di Berdjansk, che anch’io parlo russo e che nessuno mi ha mai attaccato per questo, lui ha ripetuto che mi stavo inventando tutto...”
I
pacifisti e le pantofole 22 marzo 2022
In
questi giorni si legge e si sente: pace. Alzate le mani e
arrendetevi, ucraini.
Cioè,
praticamente, quando questo Paese è stato invaso, bombardato,
ridotto allo stremo, certi pacifisti europei, solidi dentro le loro
pantofole, dicono: alzate le mani e arrendetevi. Così risparmieremo
migliaia di donne e uomini. C'è anche un'incredibile pletora, nei
commenti, contro Zelenskij: un'irresponsabile che ci sta conducendo
alla terza guerra mondiale.
Sono
spesso, queste e questi, pacifiste/i in mutande di seta. Persone che
temono per la quieta vita propria: c'è l'atomica e la benzina sopra
i 2 euro.
Ma
sapete, pacifisti sprofondati nel sofà, per l'Ucraina cosa significa
questo vostro consiglio? Consegnare la casa, la terra, la mucca, il
trattore e l'ufficio al nemico. Un invasore che domani ti dirà: tu
mi hai consegnato la casa, la terra, la mucca, il trattore e
l'ufficio senza combattere: tu sei un vigliacco. E io ti anniento.
Perché non vali niente e la tua reazione mi dà ragione. Tu non sei
una nazione.
Schiaccio
il mio tacco sulla tua nuca.
Se
gli ucraini hanno deciso di resistere vuol dire che gli ucraini hanno
deciso di resistere. Ogni arma in più che negate loro è una morte
in più e una morte più veloce.
Senza
motivo, senza alcuna minaccia, senza alcuna logica, anche strategica,
un Paese ha invaso un altro Paese.
Voi,
pacifisti ipocriti, direste ai partigiani che hanno lasciato la vita
nel 1944 e nel 1945, in un'Italia invasa dai nazifascisti: alzate le
mani e arrendetevi! Lo direste? Non andate a combattere, ci saranno
meno morti! Avreste detto questo, ottant'anni fa?
O
siete orgogliosi di quello che è stata la Resistenza? Di quello che
voi potete essere oggi grazie a quello che essa è stata allora?
Se
uno nell'autobus ti si avvicina, alza il pugno, dice dammi il
cellulare o ti spacco la faccia, tu glielo dai, il cellulare?
Papa
Francesco, nel 2015: “se uno offende mia madre io gli do un pugno.”
E
ci ricordiamo anche Alexander Langer, Sarajevo, 1995.
“...Due
anni dopo, nel giugno 1995, con migliaia di vite umane
irrimediabilmente perdute e tanti valori umani dissoltisi nel
frattempo, l’appello era ancora lo stesso (“intervenite, con
forza e subito!”) e Alex Langer lo rivolse a Cannes al Consiglio
Europeo, direttamente al Presidente della Repubblica francese Chirac
( la Francia deteneva la Presidenza di turno del Consiglio UE),
accompagnandolo con un accorato appello all’Europa: “Basta con la
neutralità tra aggrediti e aggressori, apriamo le porte dell’Unione
Europea alla Bosnia, bisogna arrivare a un punto di svolta! L’Europa
infatti muore o rinasce a Sarajevo”. Non ci fu seguito concreto,
neanche quella volta, nessun intervento, neanche qualche piccola
bomba scagliata sui depositi di armi e blindati delle forze militari
serbo-bosniache che da Sarajevo auspicavamo e invocavamo con messaggi
accorati ai rispettivi quartier generali: “…everybody understands
that they are not going to separate men from women and children in
order to interrogate them, as Mladic says...most probably they will
slaughter them. Don't
hesitate anymore, stop them now, before it's too late...what has to
happen anymore to bomb Pale!...”) Arrivarono
poi quelle bombe, ma solo a fine agosto, portarono al cessate il
fuoco, ai negoziati di Dayton e a tutto quello che ne seguì. Nel
frattempo però c’era stato un luglio crudele e maledetto che ebbe
il suo culmine atroce nella conclusione della vicenda di Srebrenica
con un vero e proprio genocidio, ma Alex Langer non li vide quei
giorni perché aveva messo fine alla sua vita il 3 luglio. Siamo
dunque arrivati all’epilogo che Adriano Sofri racconta con
precisione ed emozione nella postfazione al volume, intitolata “Alex
a Srebrenica” cui non si può aggiungere nulla, solo ripeterne un
brano, come in una preghiera laica e religiosa insieme: “Alex
dunque non c’era più. Ma le coincidenze sono l’anima delle cose
della vita e della morte, oltre che dei romanzi”
(cfr.
fondazione Alexander Langer)
19 marzo 2022
Da Odessa sabato 19 marzo è arrivato un autobus. C'erano la mamma e il figlio. Per attraversare la Moldavia ci hanno messo 12 ore. Ci siamo trovati all'area di servizio Baldo Nord, vicino a Verona. Con sé avevano solo un trolley. Uno in due. Ad aspettarli c'era con noi la sorella/zia, che vive da anni a Merano. Non c'erano turisti sull'autostrada e siamo arrivati in fretta a casa.
Odessarussa, 10 marzo 2022
Alla radio ho sentito Ugo Poletti, di Odessa Journal: non pensa che attaccheranno il centro della città. Ho chiamato i miei amici che vivono sul mare, a un chilometro dalle corazzate russe e con le stecche alle finestre: non pensano che attaccheranno il centro della città.
Il fatto è che Odessa è anche russa. Un mito russo. Non la possono distruggere, dicono: sarebbe come sparare sulla loro stessa storia.
In questi giorni, in Italia, ci sono dei mentecatti che vogliono cancellare un corso universitario su Dostoevskij. Perché è “uno scrittore russo”, la motivazione. Dostoevskij ha scritto una frase, per tutti i cittadini di questo mondo: “Krasota spasët mir”, “la bellezza salverà il mondo”. Mir, il mondo. Non i russi.
A Odessa, nell'Ottocento, ci è venuto Puškin, poeta primo e sommo per i russi di tutte le Russie. Allontanato dall'imperatrice, e confinato in una sorta di quarantena, vi ha trascorso tredici mesi. Durante i quali sembra ne abbia combinate di tutti i colori. Andando, con i suoi capelli scarruffati da africano, dietro ogni sottana e insidiando la moglie del governatore Vorontsov. Ciò non gli ha impedito di farsi costruire un museo, sulla via che porta il suo nome e che una volta era la ital'ianskaja, la via monumentale della città con i palazzi delle potenti famiglie italiane Ralli e Anatra.
C'è poi il grandissimo Isaak Babel', quasi sconosciuto in Occidente, ma scrittore potentissimo, ebreo, cresciuto tra Odessa e la Nikolaev assediata adesso dai carri armati russi, pupillo di Gorkij, giustiziato da Stalin perché “controrivoluzionario trotzkista”. Ha collaborato, Babel', con il grandissimo regista russo di origine ebrea Sergej Ejzenštejn, alla Kinostudja, proprio di fronte al mar Nero da dove oggi le corazzate russe ti puntano i cannoni addosso. Quello stesso studio, uno dei primi al mondo, una cinecittà odessita, che ha prodotto film di livello assoluto e che ha visto nascere anche i film della grande Kira Muratova.
Pure Ivan Bunin, in fuga dalla rivoluzione, ha soggiornato in città. Ricevette il premio nobel per la letteratura nel 1934. Passavo spesso sotto la sua casa, vicino al novyj Rynok (il mercato nuovo), dopo avere comprato le ciliege, davanti a una via fatta di pietre cattive che invitavano a preferirle il marciapiede.
All'hotel Londra, proprio accanto alla scalinata Potëmkin, hanno soggiornato Čehov, Čaikovskij, Majakovskij e una targa li ricorda.
A Odessa ci venivano anche, ai tempi sovietici del sorriso, dell'ottimismo e del sorpasso agli USA, i cittadini di Mosca e San Pietroburgo. Come i miei suoceri, russi, che di quella città hanno ricordi da giovani: forti e belli. Ai tempi della stagnazione brežneviana, sicura e tranquilla.
Di qui è Anna Ahmatova, ritratta da Modigliani, che dopo Puškin diventerà massima poeta di Russia. Nata quasi in periferia, sulla Fontanka, 13a stazione, l'arteria che costeggia il mare, a sud, verso la Romania. Ci si va in tram, lenti, comodi, con la bigliettaia che chiede tre grivne. Gliene lasci 5 e lei è contenta. Quando si torna in centro, proprio sulla Deribasovskaja, nel cuore del Gorsad, c'è la statua di bronzo dedicata al celebre Leonid Utësov, odessita ebreo, cantante che ebbe un successo enorme in tutta la Russia....e poi Gogol', Batjuškov, Raevskij, Žukovskij, L.N. Tolstoj... una lista lunga che ci vogliono pagine.
Non spareranno sul centro di Odessa...Per Putin sarebbe impossibile costruire fandonie su eventuali missili ucraini caduti ad arte per screditarlo. Una città rasa al suolo sarebbe per lui un enorme danno d'immagine.
Ma nessuno, visti persona e personaggio, ci mette la mano sul fuoco.
Odessa vista dall'Italia
Bombardano Odessa, 6 marzo 2022
La mamma, il papà e il figlio sono venuti da noi tre volte. Amici di Odessa. Ci siamo conosciuti lì, nella scuola comune che i nostri bambini frequentavano tra il 2011 e il 2015.
Che cosa si mostra a Bolzano ai tre amici odessiti? Il centro, ovviamente, poi Monticolo e i dintorni del Catinaccio e del Latemar, con il lago di Carezza e la seggiovia fino al Paolina; quindi il lago di Garda e Verona. Siamo anche stati a cena al Torchio in via Museo. Abbiamo bevuto uno spritz a San Paolo, proprio sotto il duomo in campagna.
Li abbiamo chiamati due giorni fa: non sono riusciti a scappare. Per via della legge che vieta agli uomini tra i 18 e i 60 anni di lasciare il Paese. Lui rimane, la moglie e il figlio non se la sono sentiti di lasciarlo da solo.
Hanno rafforzato le finestre con stecche di legno a X e c'è un garage che serve da rifugio. Hanno un bell'appartamento in una casa nuova. Decenni di risparmi. Di fronte, neanche 500 metri, il mare. E, immobili ormai da giorni, le navi da guerra russe.
Poletti, il direttore di Odessa Journal, un portale di informazione in lingua inglese che ai miei tempi non c'era, ha sentito le prime esplosioni alla periferia della città (Rainews24, 6 marzo). Ma nessuno può credere, nessuno vuole credere che i missili cercheranno il centro della città.
Odessa è una città d'arte. Una sorta di Firenze (fatte le debite differenze) ucraina; dove ucraina è un aggettivo che calza stretto, perchè gli odessiti sono odessiti, una cosa a parte e una cosa altra rispetto a tutto il resto del Paese.
Odessa è una città che ha poco più di 200 anni ma ne dimostra 500. Il che è un gran bel complimento. Quando ci cammini per le strade a scacchiera e calchi il lastrico fatto di ciottoloni pavé, ti sembra di tornare indietro nel tempo. Case a due o tre piani, progettate in gran parte da architetti italiani.
Architetti chiamati sul mar Nero dall'imperatrice Caterina. Così come il fondatore della città, Giuseppe Deribas, ammiraglio napoletano di origini spagnole.
Ma il vero simbolo iconico di Odessa è la scalinata. Progettata dall'architetto sardo Francesco Boffo, nel 1815, e realizzata con lastre di marmo portato da Trieste. Diventata poi famosa come Potëmkin, grazie al film dell'immenso regista Eizenstein. Il film celebrava l'ammutinamento dei marinai russi contro il dispotismo dell'Impero russo, nel 1905. Il primo vagito di quella rivoluzione che avrebbe portato qualche anno più tardi all'Unione Sovietica, imperituro mito di Putin (assieme, ormai, a quello di Stalin).
Questa scalinata, dal centro di Odessa di piazza Ekaterinskaja, scende direttamente al mare. Adesso, di fronte, forse a un chilometro, ci sono le corazzate russe.
Nessuno può ancora credere che Putin voglia davvero sparare sul simbolo del suo mito.